La polizia federale del Brasile ha arrestato ieri a San Paolo il vicepresidente Facebook per l’America latina Diego Dzodan. La polizia ha agito su ordine di un mandato disposto dal giudice della città di Lagarto, che si trova nello Stato a nord est di Sergipe. Ma qual è stata la causa dell’arresto del vice presidente del canale social in America latina? La ragione non è legata a soldi o droga, anzi, ma alla mancanza di collaborazione fra il colosso Facebook e le indagini che avrebbero per oggetto dei messaggi di WhatsApp, canale che appartiene a Facebook.
I fatti risalgono allo scorso dicembre, quando un giudice aveva deciso di bloccare temporaneamente il servizio di messaggistica offerto da WhatsApp per non avere rispettato la richiesta di accesso ai dati. Tale richiesta non era stata accolta dal gruppo per ben due volte. Si trattava di una richiesta di dati in merito ad un’indagine che interessava due componenti di un cartello criminale. Il rifiuto di collaborare con la giustizia e di rendere noti i dati ha fatto infuriare il giudice locale, che ha quindi proceduto con l’arreso del vicepresidente del gruppo, contestando reati che interessano la mancata collaborazione con le forze dell’ordine.
Si tratta di una vicenda che riaccende le polemiche sulla legittima richiesta da parte delle autorità di chiedere crittografie e decifrazioni dei codici da parte delle società di telefonia e di messaggistica. Alla base di tutto c’è la spinosa questione della privacy, ma anche tanto spionaggio industriale, perché se il sistema di decodificazione cadesse nelle mani sbagliate potrebbe trattarsi di una tragedia per la stessa azienda, ma anche per i consumatori che potrebbero vedere distrutti in un secondo dati personali e minati anche account legati al deposito di soldi. La questione si rivela molto simile a quella che ha interessato Apple nei giorni scorsi, coinvolta nella scelta di non decrittare i dati relativi all’iPhone del killer colpevole della strage di San Bernardino.