Massimo Cotto, giornalista, musicologo e assessore alla cultura del Comune di Asti (che a Giorgio Faletti, morto ieri mattina alle Molinette, intitolerà la Biblioteca Civica) parla a ruota libera, con la voce rotta dall’emozione.
“Ho passato la notte sveglio, in ospedale – spiega – Non sono molto lucido”. Le ultime ore al fianco dell’amico fraterno con il quale negli ultimi vent’anni ha condiviso tutto: la passione per la musica, le serate ad Asti, le bevute e le cene (“Era un grande cuoco, appassionato e creativo”), le vacanze nel buen retiroall’Isola d’Elba. “Giorgio c’era al primo giorno di scuola di mio figlio – racconta Cotto – gli ha insegnato a nuotare. Insieme abbiamo fatto infinite cose e incredibili viaggi. È la persona al mondo che più mi abbia fatto ridere fino alle lacrime e poi anche piangere. Due corde estreme che solo un artista totale riesce a toccare”.
La notizia ha scioccato tutti. L’avevamo lasciato lo scorso autunno, vitalissimo come sempre. Pieno di idee e di progetti…
“Aveva pronto un nuovo disco e uno spettacolo scritto che avrebbe dovuto debuttare in questi giorni ad Asti Teatro. Il titolo, “L’ultimo giorno di sole”, fa venire i brividi. Come quello di una delle canzoni, “Ave Maria”. Quasi una premonizione. In queste ore prevale il senso di incredulità. Fino all’ultimo, pur vedendolo lì, incapace di muoversi e di parlare, non riuscivo a credere che se ne stesse andando”.
Come ha reagito Faletti alla malattia?
“Con coraggio ed estrema lucidità, ma alla sua maniera: sempre prendendola per il culo. Nei giorni della chemioterapia l’ho raggiunto a Los Angeles. Eravamo in un ristorante vietnamita e mi ha proposto, scherzando: facciamo una foto insieme così quando la guarderete direte “pensa, c’era ancora
Giorgio”. Ha lottato fino all’ultimo, sempre sorridendo”.
“Disperato ma non serio, come il titolo di uno dei suoi dischi. Come è nata la vostra amicizia e cosa vi ha legato così tanto?
“È nata ai tempi di “Signor Tenente”, nei primi anni 90, quando io ero critico musicale. Ci siamo avvicinati quando lui è tornato a vivere ad Asti. Ad unirci era la stessa malinconia e la stessa gioia della vita. Una volta al giorno, Giorgio era attraversato da uno spleen che quasi sempre lo portava al pianoforte e faceva nascere una canzone”.
Aveva una passione per le chitarre…”Ne possiede una collezione. Ma non suonava bene. Una volta fece ascoltare un suo assolo a Branduardi che commentò: “Sembri Santana con la diarrea”. Al che Giorgio ammise: “Forse è meglio se lascio perdere””.
Un artista eclettico e spericolato. Cosa lo spingeva in questa passione onnivora per la performance?
“Una assoluta urgenza di raccontarsi. Quando aveva in testa una canzone era come in preda a un a febbre malarica. Nel 2004, per il decennale, venne fuori l’idea di comporre un seguito di “Signor Tenente”. La buttò giù in pochi minuti, sulla tovaglietta di carta del ristorante. Poi decise di non farne niente, per non sporcare il suo successo più grande con un’operazione che potesse apparire commerciale”.
Che rapporto aveva con Torino?
“Un amore. Torino è stato il nostro primo approdo. Per noi, che veniamo da in fondo alla campagna, era New York”.
Com’è l’atmosfera ad Asti?
“Tutti sapevano e se l’aspettavano. Ma è stato un duro colpo. Giorgio era molto amato, qui. Lo si vedeva spesso in giro, socievole, alla mano. E la gente si dimenticava di avere di fronte lo scrittore italiano più venduto al mondo”.
Un epitaffio?
“Qui giace un uomo innamorato del fuoco della vita”.