E’ un po’ che si fa gran parlare dei paesi che beneficiano del calo delle quotazioni del greggio e di quelli che invece ne risentono, sul fronte delle esportazioni (la Russia in primis che ha dovuto rivedere le stime di bilancio in ribasso). Dobbiamo, in pratica, rivedere qualche nostra considerazione perché non tutti conoscevano bene la storia dello Shale Oil.
Qualche tempo fa gli Usa hanno scoperto il modo di espandere la produzione del petrolio, senza dipendere dalla sua importazione (e prima gli Usa erano tra i primi importatori del greggio): tutto merito di un processo all’avanguardia che faceva uso, e questo è nuovo a molti, di una sostanza vegetale importata niente di meno che dall’India, India che per un po’ ci ha goduto, francamente parlando.
Ma dopo le gioie vengono i dolori: questa è la vita.
Gli Usa si sono detti: Perché continuare ad importare questa sostanza dall’India (il Guar) quando possiamo fabbricarcene una noi che adempie alla stessa finalità e combinata con sabbia ed altre sostanze chimiche ci consente di produrre il greggio? Scienziati di laboratorio al lavoro, gli Usa sono riusciti anche in questo ed ora fanno a meno di importare anche dall’India. E pensare che quest’ultima potrebbe anch’essa, a questo punto, darsi allo shale oil ma non lo fa evidentemente per mancanza di risorse o perché preferisce importarlo (da un certo punto di vista, però, non si capisce perché debba).
La contesa Arabia Saudita, Usa varca i confini dell’economia ed attraversa quelli della “guerra fredda” che inconsciamente stiamo vivendo e sta rendendo le nostre giornate sempre più dense di avvenimenti. E dato che il califfato è sempre ormai in prima linea (qualcuno si è ostinato a dire che ciò farebbe comodo perché distrarrebbe l’opinione pubblica dal clima di crisi e miseria economica che ci caratterizza), il principale mercato nero del petrolio è proprio il suo, almeno secondo quanto si dice.