Tre anni e mezzo dopo aver contribuito all’eliminazione di Muhammar Gheddafi, l’avventura libica dell’Amministrazione Obama si conclude con una fuga.
È la sindrome Bengasi, l’incubo di veder morire cittadini americani in Libia, come quell’11 settembre 2012 quando l’ambasciatore Usa Chris Stevens e altri tre connazionali furono uccisi in un attacco alla missione diplomatica in Cirenaica.
Un vero blitz militare, quello con cui ieri gli americani hanno evacuato l’ambasciata a Tripoli. Una colonna di mezzi con circa 150 funzionari a bordo ha raggiunto via terra la Tunisia, scortata dai caccia e dai marines di stanza a Sigonella. Il segretario di Stato Kerry ha detto che è un provvedimento temporaneo, dovuto all’intensificarsi degli scontri tra milizie vicino all’edificio dell’ambasciata.
Nuovo avviso del dipartimento di Stato, che chiede agli statunitensi di non andare in Libia e raccomanda a quanti già vi si trovino di lasciarla subito. Secondo il segretario di Stato John Kerry, l’evacuazione dell’ambasciata Usa in Libia è dovuta a un “rischio reale” per il personale della sede diplomatica.
Per gli americani l’addio a una Libia presentata a suo tempo come l’icona del sostegno della presidenza democratica alle “Primavere arabe” acquista un sapore ancor più amaramente contradditorio alla luce delle dichiarazioni rese da Obama dopo l’uccisione di Gheddafi.
“Gli Stati Uniti e la comunità internazionale hanno un impegno con il popolo libico. Voi avete vinto la vostra rivoluzione. Noi ora saremo al vostro fianco mentre voi costruirete un futuro di dignità, libertà e opportunità” – promise Obama il 20 ottobre 2011.
Intanto gli scontri continuano e i morti aumentano, il governo ad interim ha lanciato ieri un ennesimo appello a fermare i combattimenti e a evitare “il crollo dello Stato”.
Ma la Libia appare già da tempo sull’orlo del baratro, baratro da cui anche gli americani oggi si sono voluti allontanare.